Giuseppe De Fazio. Memorie dal sottosuolo

20 Feb

di Ivan Quaroni



Ryan Heshka. Springs to Come

13 Feb




K90-99: Arte Contemporanea dalla Corea del Sud

7 Feb

di Ivan Quaroni


Pao. Mutamenti

6 Feb

[1] James Bridle, Nuova era oscura, 2019, Nero edizioni, Roma, p. 67.

[2] Ivi, p. 85.

[3] Timothy Morton, Iperoggetti, 2018, Nero edizioni, Roma, p. 11.

[4] Ivi., p. 19.

[5] Si veda in proposito Graham Harman, Ontologia Orientata agli Oggetti. Una nuova teoria del tutto, 2021, Carbonio Editore, Milano.

[6] Jeff VanderMeer, Trilogia dell’Area X. Annientamento. Autorità. Accettazione, 2018, Einaudi, Torino.

[7] Bruno Munari, Fantasia, 2017, Laterza, Bari, p. 28.

[8] Livio Santoro, Timothy Morton: la vera ecologia è godimento, 23 dicembre 2022, «lavialibera», https://lavialibera.it/it-schede-1210-timothy_morton_la_vera_ecologia_e_godimento.

[9] Richard Wilhelm, Introduzione, in I Ching. Il Libro dei Mutamenti, a cura di Richard Wilhelm, 1999, Adelphi, Milano, p. 45.


Michele Redaelli. Cacciatori d’orizzonti

5 Feb

di Ivan Quaroni

Rachel Hobkirk. The Uncanny Edgy Cuteness

20 Dic

Italian Text and English Text Below





Rachel Hobkirk | BABY TALK

September 13 – October 22, 2023

L:U:P:O: — LORENZELLI UPCOMING PROJECTS ORGANIZATION

C.So Buenos Aires 2, Milano

Giorgio Griffa. Il caos nell’ordine.

18 Nov


Nicola Nannini. Segnali di vita

9 Ott

di Ivan Quaroni


[1] Ernst H. Gombrich, Arte e illusione, Einaudi, Torino, 1965, p. 17.

[2] Roberto Cresti, Attraverso la notte, in Nicola Nannini. Attraverso la notte, a cura di Roberto Cresti, catalogo mostra Centro Culturale Le Muse, Andria, 12 novembre 2017 – 31 gennaio 2018, p.19.

[3] Gombrich, op. cit., p. 45.

[4] Alberto Agazzani, La scelta di Nicola, in AA.VV., Nicola Nannini. Divertissement, a cura di Graziano Campanini, catalogo mostra Associazione Artistico Culturale Il Ponte, Pieve di Cento, Bologna, dicembre 2004 – gennaio 2005, Skira editore, Milano, 2004, p. 13.

[5] Parole autografe dell’artista.

[6] Gli storici chiamarono “Grande gioco” la contrapposizione strategica tra Impero Britannico e Russia zarista nel XIX secolo nella lotta al controllo coloniale dell’Asia centrale e del subcontinente indiano. A rendere popolare il termine fu lo scrittore britannico Ruyard Kipling nel romanzo Kim, che introduce il tema della rivalità e dell’intrigo spionistico tra potenze rivali.

Sarah Ledda. Almost True

10 Lug

di Ivan Quaroni

La vexata quaestio del rapporto della pittura con la realtà, ovvero della sua presunta funzione mimetica nei confronti del mondo fenomenico, subisce un’impennata iperbolica con l’irrompere prima della fotografia, poi del cinema e, infine, inevitabilmente, della televisione e dell’immagine digitale computerizzata. Queste rivoluzioni ottiche di portata cataclismatica hanno prodotto una profonda accelerazione e, come avvertiva Peter Seger, una “perturbazione dell’equilibrio della coscienza della realtà”[1]. Definire che cosa sia la realtà, pur nel solo ambito della rappresentazione pittorica, è diventato problematico, se non addirittura impossibile. 

Nel 1855, all’epoca in cui fu inaugurato il suo Pavillon du Réalisme, per Gustave Courbet la pittura realistica consisteva unicamente nella rappresentazione di cose che l’artista può vedere e toccare. Oggi, però, l’ambito del “vedere” si è enormemente accresciuto, è diventato ipertrofico. L’equilibrio tra le strutture e le attività del nostro apparato sensorio è stato alterato a favore della vista, che ha assunto un ruolo primario rispetto alle altre facoltà percettive. La realtà si è virtualmente amplificata nel momento in cui il “vedere” è diventato anche un “tele-vedere”, cioè, secondo la radice greca del termine “tèle”, un vedere “da lontano”, dove la “lontananza” marca una distanza fisica tra il corpo e l’oggetto ormai smaterializzato della nostra visione.  

Per comprendere il lavoro di Sarah Ledda è necessario partire da qui, ossia dal mutato regime delle condizioni in cui si trova a operare l’odierno pittore della realtà. Una realtà moltiplicata, espansa, deterritorializzata attraverso la produzione e riproduzione di immagini finzionali che lambiscono e insidiano il perimetro dell’esperienza sensibile. 

Ma è anche vero, come scriveva Seger, che “ogni realismo è diverso dalla realtà” e che “[…] non c’è rappresentazione della realtà senza il suo concetto, senza una visione almeno quotidiana di essa, senza l’esperienza e la concezione di ciò che la realtà è per ogni epoca”[2].  In tal senso, perfino la pittura più mimetica non può essere considerata il prodotto di un semplice atto di riproduzione della realtà ma, semmai, un tentativo di appropriazione e di interpretazione della realtà stessa. Tentativo che altera, talvolta radicalmente, ciò che viene raffigurato attraverso il filtro della rappresentazione concettuale e della produzione tecnica e ideativa. Altrimenti “copiare la realtà” sarebbe, come pensava Hegel, un lavoro inutile e “uno sport presuntuoso”. 

Me at funfair, 2018, olio su tela, 80×120 cm

La pittura di Sarah Ledda, com’è evidente, non concerne affatto la mera rappresentazione della realtà, ma nemmeno la celebrazione di un immaginario mediatico facilmente condivisibile attraverso l’innesco di una mutua complicità tra artista e osservatore, basata sul riconoscimento di icone del cinema hollywoodiano, che sarebbero entrate di diritto nel patrimonio delle immagini universali – cosa della quale si potrebbe dubitare nello sfaccettato scenario multiculturale globale. 

Quella di Ledda è piuttosto una ricerca incentrata sull’atto della visione, intesa come capacità di rielaborazione consapevole delle immagini e, insieme, come processo di riorganizzazione del mondo, dell’insieme delle esperienze interiori ed esteriori che l’artista ha maturato e poi eventualmente trasferito nella sua prassi artistica. Non si tratta, nel suo caso, di riprodurre con esattezza l’immagine che sta davanti ai suoi occhi, sia essa il fotogramma di un film di Hollywood o di una vecchia serie televisiva americana, ma di tradurre con la potenza metamorfica del linguaggio pittorico una visione interiore che il frame può incarnare o “personificare”, per effetto di una sorta di transfert o di scambio simbolico tra la memoria personale dell’artista e l’immagine virtuale e mediatica. 

Dal momento che le scene dipinte da Sarah Ledda sono innanzitutto quelle viste dalla prospettiva di uno spettatore davanti a uno schermo, la loro trasfigurazione pittorica assume anche il significato di una sottrazione della pittura alla mimesi del reale e, di conseguenza, di una restituzione alla sua funzione mitopoietica. 

La ricerca dell’artista, infatti, si configura come una pratica di ricodifica dell’immagine filmica in grado di trasformare l’essenza traumatica della realtà in un alfabeto di figure riconoscibili, anche se non necessariamente universali. In particolare, il repertorio del cinema classico hollywoodiano e di certe serie televisive che hanno plasmato l’immaginario mediatico occidentale, si offre come una sorta di dispositivo allegorico, una “macchina per pensare” i motivi di una poetica che ruota, sovente, attorno alla questione della formazione dell’identità femminile. 

Tutto in una lettera, 2021, olio su tela, 180×240 cm

In questo senso, il frame – sia esso quello del volto di una diva di hollywoodiana come Marilyn Monroe, Audrey Hepburn, Liz Taylor e Judy Garland  o, ancora, quello della giovane Inger Nilsson nei panni di Pippi Calzelunghe oppure dei bambini protagonisti della sitcom Family Affair – non solo appartiene alla memoria personale dell’artista, ma può trasformarsi, grazie alle comuni esperienze di un pubblico multigenerazionale, in un segnale condiviso, capace di stimolare una reazione in chiunque lo riconosca. 

Il fotogramma sublimato nella grammatica pittorica può diventare, così, l’espressione di un nuovo tipo di rappresentazione realistica, che usa il filtro delle produzioni mediali della cultura di massa per indagare i temi della memoria e delle emozioni nel rapporto dialettico tra fiction e realtà. 

Tuttavia, come acutamente notava Ernst Gombrich, “la pittura è un esercizio attivo, perciò l’artista tenderà a vedere quello che dipinge più che dipingere quello che vede”[3]. Così è per Sarah Ledda, che non si limita a riprodurre fedelmente il fotogramma, ma introietta l’immagine filmica nella pittura per farla coincidere con memorie, sentimenti e stati d’animo che talvolta precedono l’atto della visione e talaltra coincidono con il momento di selezione del fermoimmagine. “Ogni soggetto trasformato in dipinto”, racconta l’artista, “è un elemento mitobiografico che mi aiuta a definire la mia identità”[4]. Ma un effetto secondario di questo processo è inevitabilmente anche quello di rivitalizzare e riattualizzare quei frammenti di simulazione che, per dirla con Baudrillard, sono “frammenti di quella simulazione universale che è diventato per noi il mondo che si dice reale[5].

Per il sociologo francese, infatti, non è più possibile fabbricare l’immaginario a partire dal reale, anzi “il processo sarà piuttosto l’inverso: si tratterà di realizzare […] modelli di simulazione e di ingegnarsi a dar loro i colori del reale, del banale, del vissuto, di reinventare il reale come finzione, proprio perché il reale è scomparso dalla nostra vita”[6].

Light view, 2022, olio su tela, 60×80 cm

Il formato del frame, la singola immagine visualizzabile da un nastro videomagnetico, ma anche il fotogramma di un lettore dvd e perfino l’artificio del Technicolor – una tecnica di ripresa cinematografica a colori accesi e vivaci – diventano, così, il quadro concettuale entro cui Sarah Ledda opera questa reinvenzione del reale. 

E, tuttavia, l’artista si appropria di questa strumentazione alterandola. Ciò significa non solo che può selezionare solo una porzione circoscritta dell’intero fotogramma, oppure nascondere o esaltare particolari della scena come gli oggetti e gli sfondi, ma può anche rimodulare, grazie alla pittura, la grana stessa dell’immagine, ad esempio acuendo l’intensità cromatica con l’esasperazione del Technicolor, virando i colori verso le gamme dei rosa o degli azzurri e, infine, sfocando i contorni delle figure e smaterializzando lo sfondo in campiture astratte. L’evidenza del segno pittorico, per quanto sorvegliato e privo di accentuazioni gestuali, resta, infatti, tanto palese da non lasciare dubbi. Inoltre, altri elementi evidenziano come la sua sia, anzitutto, un’indagine sulla pittura stessa, concepita come strumento costruttivo che si avvale di lemmi extra-pittorici, come il taglio cinematografico dell’inquadratura, gli espedienti ottici della sfocatura e della dissolvenza e perfino i sottotitoli impressi sul bordo inferiore dei fotogrammi. 

In particolare, l’inclusione dei sottotitoli, rilevabile soprattutto in alcune tele della serie Deadline, ha una duplice funzione: da un lato, rivela immediatamente la fonte mediatica dell’immagine, dall’altra, la risemantizza tramite l’interruzione del tessuto narrativo della pellicola. Così, il cortocircuito prodotto dall’associazione tra il volto di Anissa Jones – la “Buffy” di Family Affair – e il sottotitolo estrapolato dal più ampio contesto di un dialogo, può diventare un’immagine gnomica, che compendia un significato morale (ad esempio, “Her eyes are bigger than her stomach”), oppure può assumere un valore enigmatico (come nel caso di “and a tree with a tree house”). Come afferma l’artista, “è pittura anche la parola scritta, parte integrante di immagini che includono anche il senso di una specie di oracolo”[7] [quasi che il sottotitolo, isolato e sottratto al flusso sequenziale dei dialoghi, acquisisse la medesima qualità enigmatica delle epigrafi del Tempio di Apollo a Delfi]. 

Fading, 2014, olio su tela, 16×14 cm

In molte opere di Ledda, il carattere pretestuoso del frame appare inequivocabile. La fonte mediatica di partenza sembra retrocedere, fino quasi a scomparire, lasciando emergere la qualità squisitamente pittorica del materiale visivo. In alcuni lavori della serie Deadline, ad esempio, l’artista sembra quasi svelare il momento generativo dell’immagine, mostrandoci la quadrettatura sottostante, tradizionalmente usata dai pittori per costruire l’impianto disegnativo di un quadro. In molte tele, invece, si può notare come l’iconografia di partenza venga traslata in immagini a cui sembra sia stata sottratta l’originaria esattezza ottica. Non solo i contorni delle figure sono talvolta sfocati (Light View, 2022; Me at the Funfair, 2018; e-mer-sió-ne, 2018) e gli sfondi talora ridotti a un magma cromatico indifferenziato (In my Garden, 2019; Beata Solitudo, 2019), ma l’intero impianto delle opere dell’artista sembra caratterizzato da una sorta di bassa fedeltà retinica, che riproduce in termini pittorici la qualità aleatoria e frammentaria dei ricordi. Memorie che, in questo caso, sono letteralmente reinventate con l’ausilio dell’immaginario filmico e quindi riprodotte in pittura attraverso quella che Gilles Deleuze ha definito come una “ripetizione differente”, non pedissequa. 

Beata solitudo (sola beatitudo), 2019, olio su tela, 68×80 cm

D’altra parte, a proposito di quanto riferito dall’artista sul fatto che ogni suo quadro può essere considerato un elemento mitobiografico di costruzione dell’identità, vale la pena ricordare quanto scritto proprio da Deleuze, e cioè che “tutte le identità non sono che simulate, prodotte come un effetto ottico, attraverso un gioco più profondo che è [appunto] quello della differenza e della ripetizione”[8]

Un gioco che ritroviamo anche nell’unico lavoro extra-pittorico di Sarah Ledda, intitolato A/R (Frames), una serie di fotografie, montate in sequenza video, che ritraggono scorci di paesaggio catturati nell’arco di dieci anni lungo la tratta ferroviaria tra Aosta e Torino. Sono geografie mobili che subiscono continue, impercettibili variazioni nel tempo, dovute non tanto alle inevitabili modificazioni morfologiche del paesaggio, quanto alle mutazioni che lo sguardo dell’artista subisce nell’impresa di tradurre il proprio vissuto in immagini e trasformare, così, la propria bildung in un complesso apparato visivo dove l’occhio interno dell’artista e quello esterno dell’osservatore s’incontrano sul piano della pura simulazione. 


[1] Peter Seger, Le nuove forme del realismo, 1976, Gabriele Mazzotta Editore, Milano, p. 10. 

[2] Ivi, p. 9.

[3] Ernst H. Gombrich, Arte e illusione. Studio sulla psicologia della rappresentazione pittorica., 1965, Giulio Einaudi editore, Torino, p. 104.

[4] Parole autografe dell’artista. 

[5] Jean Baudrillard, Cyberfilosofia, 2010, Mimesis, Milano-Udine, p. 13.

[6] Ivi, p. 12.

[7] Idem, come nota 4.

[8] Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione, 1997, Raffaello Cortina Editore, Milano, p. 2.

Crypto Series: The Future is Unwritten

5 Lug

Questo testo è stato scritto in occasione dell’omonima mostra, curata dal sottoscritto insieme a Linda Tommasi, a Villa Ciani, a Lugano, dal 15 al 21 novembre 2021, e dunque riflette il clima di entusiasmo di quel particolare periodo. The Future is Unwritten, che io sappia, è stata la prima esposizione pubblica di opere di Crypto Art in Svizzera, realizzata dal comune di Lugano grazie al fondamentale contributo di un importante collezionista, Poseidon NFT Fund (oggi Poseidon DAO).

Introduzione

Di Ivan Quaroni

Se ne è parlato e scritto molto. Il nuovo hype è la Crypto art, l’arte digitale che si acquista con le cripto valute (Ethereum soprattutto) su piattaforme come SuperRare, Nifty Gateway, Rarible, Opensea o Foundation, tanto per citarne alcune. Un’arte che, a dire il vero, esisteva già, ma era completamente, o quasi, ignorata dal sistema mercantile tradizionale in ragione della sua immaterialità e quindi invendibilità. Si tratta, infatti, di opere fatte solo di immagini, animazioni, Gif o brevi video che i collezionisti non usano (almeno non tutti) per arredare il proprio salotto, ma che possono comunque essere esposte in gallerie virtuali o attraverso monitor nei musei e nelle gallerie d’arte. Nella stragrande maggioranza dei casi è un’arte nativa digitale, realizzata con software e strumenti di elaborazione delle immagini come Photoshop o Cinema 4D, ma può essere anche il prodotto della digitalizzazione di opere tradizionali, come quadri, fotografie o sculture trasformati in NFT.

L’NFT (Non Fungible Token) è un sistema crittografico che consente di fornire prove di autenticità e proprietà dell’arte digitale. La portata innovativa di questo sistema consiste nel prevenire falsificazioni di ogni tipo. L’immagine di un’opera crypto potrà anche essere copiata, ma non il suo certificato di proprietà, le cui informazioni sono fissate nella blockchain – una sorta di registro digitale delle transazioni in cripto valuta – e quindi non possono in alcun modo essere alterate. A far emergere il fenomeno hanno contribuito i numerosi articoli sull’argomento che, però, si limitavano a sottolineare la rilevanza economica di questo nuovo mercato, snocciolando cifre e record d’asta come nel caso dei 69 milioni di dollari totalizzati da Christie’s per la vendita di Everydays: The First 5000 Days di Beeple, e trascuravano invece gli aspetti culturali della crypto arte e i motivi che ne hanno favorito l’emersione.

Il grande merito della rivoluzione Crypto, per molti versi assimilabile all’esplosione del Punk alla fine degli anni Settanta (tanto da contenere elementi di filiazione fin troppo evidenti, dal fenomeno dei CryptoPunks alla collaborazione di Hackatao con i Blondie, fino all’estetica DIY di XCOPY), è stato quello di aver liberato un potenziale creativo abnorme, fornendo una dimensione mercantile a linguaggi, espressioni e grammatiche artistiche fino a quel momento marginalizzate dal sistema dell’arte tradizionale. Tra le centinaia, anzi migliaia, di artisti che si sono avventurati nel mondo degli NFT, oltre quelli che provengono da precedenti esperienze artistiche e che possono vantare un curriculum di tutto rispetto, ve ne sono molti che, invece, si sono fatti le ossa nell’industria cinematografica o in quella dei videogame, nella pubblicità o nella televisione, lavorando come graphic designerconceptual artistcharacter designerart directormatte painter3D artistvisual designer game designer, ed altri che, semplicemente, si dilettavano a produrre arte per se stessi. Per molti, soprattutto per quelli che rientrano nella categoria dei commercial artists, la scoperta degli NFT è stato un modo per ritornare a una dimensione artistica e autoriale, finalmente libera dagli obblighi imposti dalla committenza. Sono emerse, così, nuove personalità che altrimenti non avrebbero trovato posto in un settore, come quello artistico, viziato da storture sistemiche ormai note a tutti.

Un altro elemento rivoluzionario dell’ondata di Crypto Art riguarda l’accorciamento della filiera tradizionale dell’arte, che ha portato gli artisti a diretto contatto con i collezionisti, cancellando, di fatto, la mediazione economica delle gallerie e, in un primo momento, anche quella culturale dei curatori e dei critici d’arte, che sono stati poi reintegrati come elemento indispensabile di divulgazione e storytelling. Si può, infatti, affermare che la mediazione economica sia passata alle succitate piattaforme di vendita, le quali, però, si accontentano di percentuali assai minori su ogni transazione rispetto a quelle applicate nel vecchio mercato. In molti credono che questa rivoluzione stia tagliando fuori gli elementi ingiustamente considerati parassitari e che costituivano la “catena del valore” attraverso le strategie di posizionamento e l’elaborazione critica e documentaria, e che abbia finalmente restituito centralità alla figura dell’artista (e forse anche a quella del collezionista e mecenate). Ma è un’impostazione che alcune piattaforme hanno subito abbandonato, dotandosi di board interni, formati da curatori, collezionisti, artisti e membri della community che garantiscono la presenza di procedure che vagliano la qualità delle proposte artistiche.

Il problema, tuttavia, resta quello di orientarsi nella sterminata galassia della Crypto Art. Per trovare la bussola bisogna prima familiarizzare col gergo strettamente tecnico di questo nuovo mondo, imparando a distinguere, nella pletora dei neologismi, quelli che possono aiutarci a capire meglio il fenomeno. Per prima cosa bisogna capire che il cosiddetto “NFT”, il Non Fungible Token, non è l’opera, ma il dispositivo che rende possibile la sua presenza sulla blockchain. Capita spesso di riferirsi al lavoro di un artista con questo termine, ma è solo un’approssimazione comoda per distinguere questo tipo di opere da altre opere digitali. Anche “crypto arte” è una definizione di comodo per indicare – come spiega Domenico Quaranta in Surfing with Satoshi (2021, postmedia books, Milano) – “un’arte digitale oppure digitalizzata resa rara dalla sua registrazione su blockchain”. Questo significa che la Crypto Art non è un fenomeno artistico alla stregua dell’Impressionismo, del Futurismo o del Dadaismo, caratterizzato da uno stile, da una tecnica o da contenuti programmatici coerenti, ma qualcosa di estremamente variegato, tentacolare, multiforme e, dunque, molto difficile da definire. Quel che si può e si deve fare per esplorare questo nuovo territorio è ricostruire la catena del valore. Manca, infatti, una letteratura che sappia interpretare in termini artistici, critici, estetici, stilistici (ma anche politici e sociologici) il valore di opere che sembrano ricollegarsi più all’immaginario fantascientifico del cyberpunk o a quello delle subculture della rete come la Vaporwave e la Retrowave, o a quello popolare di fumetti e cartoni animati, piuttosto che non alle evoluzioni della storia dell’arte. L’unico modo per costruire una documentazione valida è iniziare ad occuparsi non del fenomeno, ma dei singoli artisti, delle loro genealogie culturali, delle ricorrenze e iterazioni che caratterizzano le loro ricerche. Solo così diventa possibile tracciare una mappa e costruire una geografia di questo universo che – ho la netta impressione – sia tutto, fuorché una moda passeggera o una temporanea tendenza della stagione pandemica.

La mostra The Future is Unwritten nasce come una selezione di opere tra le centinaia di NFT che costituiscono la collezione del Gruppo Poseidon, una delle più grandi e cospicue in Europa. I criteri di scelta hanno tenuto conto prima di tutto del principio di autorialità, che ci hanno condotto a scartare tutte le produzioni NFT non specificamente artistiche, come ad esempio i collectible, e le card. Secondariamente abbiamo valutato la rilevanza dei nomi e il loro contributo alla nascita e allo sviluppo della Crypto Art. Accanto ad artisti di caratura internazionale, come Beeple, XCOPY, Hackatao, Dangiuz, Federico Clapis, Skygolpe, Fabio Giampietro, Raphael Lacoste, Giovanni Motta, Andre Chiampo, che hanno giocato, con pesi e misure differenti, un ruolo di anticipatori, pionieri o attivisti nella definizione di questa nuova compagine, abbiamo selezionato un nucleo di artisti esordienti nell’universo NFT, come Niro Perrone, Nicola Caredda, Giuseppe Veneziano, Adriana Glaviano e Giò Roman, per la qualità e l’originalità delle loro opere. Unica eccezione al principio di autorialità, ma non a quello dell’innovazione pionieristica, è rappresentato dall’inclusione in questa mostra collectible come i due CryptoPunks del Larva Labs e l’esemplare di Bored Ape Yacht Club dello Yuga Labs, scelti per il loro valore iconico e per tutto ciò che hanno rappresentato e continuano a rappresentare per la comunità crypto, insieme dei brand, degli status symbol e, soprattutto, dei codici e dei segnali di riconoscimento e di appartenenza. La mostra ci fornisce una visione inevitabilmente parziale, ma significativa dei linguaggi che caratterizzano questo nuovo comparto dell’arte digitale, un mondo che è appena nato, ma che crediamo, come suggerisce il titolo, sarà foriero, nei prossimi anni, di ulteriori e forse imprevedibili sviluppi.

Beeple

di Ivan Quaroni

È il più importante artista della scena crypto, divenuto l’emblema di una rivoluzione che, come lui stesso ha affermato, ha aperto “un nuovo capitolo della storia dell’arte”. Il suo nome è rimbalzato su tutti i principali canali d’informazione come l’autore di Everydays: The First 5000 Days, la terza più costosa opera d’arte al mondo, dopo Rabbit di Jeff Koons e Portrait of an Artist (Pool with Two Figures) di David Hockney, battuta lo scorso 11 marzo da Christie’s per l’incredibile cifra di 69,3 milioni di dollari, cosa che lo ha reso anche il più celebre artista digitale di tutti i tempi e il primo a raggiungere il record per la vendita di un’opera immateriale. Il suo gigantesco collage, composto da 5000 immagini, ognuna delle quali è stata realizzata in uno dei 5000 giorni richiesti per completare l’intero lavoro, non solo ha sorpassato in valore Old Masters come Raffaello e Tiziano, ma ha anche segnato il passo del lungo percorso di riconoscimento delle opere digitali, che, grazie a lui, sono ora trattate sul mercato dell’arte alla stregua delle opere tradizionali. La persona che sta dietro lo pseudonimo di Beeple è Mike Winkelmann. Classe 1981, nato e cresciuto a North Fond du Lac, una piccola cittadina del Wisconsin, Beeple ha cominciato la sua carriera d’artista nel 2007, quando ha creato il ritratto di suo zio Jim, la prima delle immagini di Everydays: The First 5000 Days. Il suo immaginario è influenzato dalla cultura di massa, dal fumetto, dai cartoni animati, dalla fantascienza, ma anche dai videogame e dalla cronaca. Dopo una laurea in informatica e un’esperienza come web designer, Beeple – un nome preso in prestito da un peluche degli anni Ottanta -, si è dedicato all’arte con una disciplina esemplare, realizzando un’opera al giorno per 13 anni, usando programmi come Photoshop e Cinema 4D. Il risultato di tanta dedizione, aldilà dei suoi successi personali, è stato di aver aperto la strada a migliaia di artisti digitali snobbati dal vecchio sistema dell’arte, che li considerava poco più di semplici illustratori. 

L’opera esposta in questa mostra è GIGACHAD, un video in cento esemplari che raffigura Elon Musk a passeggio con un cane. Il Ceo di Tesla è rappresentato col corpo muscoloso di Gigachad, un personaggio meme simile all’Incredibile Hulk, accompagnato da un cane della razza giapponese Shiba Inu, simbolo della dogecoin, una criptovauta nata per scherzo nel 2013, che si sviluppò rapidamente grazie al sostegno di una community e che nel gennaio 2014 ha raggiunto una capitalizzazione di mercato di 60 milioni di dollari. Quest’opera dimostra come il mondo della crypto arte, tanto nelle immagini quanto nei contenuti, sia spesso autoreferenziale.

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Nicola Caredda

di Ivan Quaroni

Nato a Cagliari nel 1981 e formatosi all’Accademia di Belle Arti di Sassari, Nicola Caredda è un pittore visionario, nel cui stile si fondono influssi pop surrealisti e suggestioni distopiche. Il salto dalla pittura agli NFT avviene, dunque, sotto il segno di un immaginario post-apocalittico che trasferisce l’atmosfera di metafisica sospensione degli Enigmi dechirichiani in un Pianeta Terra devastato dalle macerie e dai detriti dell’era post-moderna. I suoi paesaggi mostrano ciò che rimane dopo l’ecatombe ecologica, un globo disabitato e silente, costellato di rovine industriali, architetture scheletriche e malinconici reperti della società dei consumi. Sono visioni notturne che raccontano la fine dell’antropocene, l’attuale epoca geologica dominata dalle attività umane che, secondo le previsioni del biologo Eugene Stoemer, sono la principale causa delle modificazioni ambientali, strutturali e climatiche del nostro ecosistema. Caredda ce ne fornisce un’immagine oleografica, la convincente prefigurazione della fine del mondo dove, però, sopravvivono tracce e segni dell’identità italiana nei reperti dell’iconografia cattolica o nei graffiti dipinti sui muri di cemento di una sterminata periferia urbana.

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Andrea Chiampo

di Ivan Quaroni

Andrea Chiampo è nato a Vicenza nel 1991. Ha studiato Disegno Industriale presso lo IAAD di Torino e dopo aver lavorato come Product designer è passato all’Entertainment Design con produzioni in ambito cinematografico, come quelle con 20th Century Fox, Netflix, MPC e The Mill. Attualmente lavora a Londra come Concept Artist presso la Disney – Industrial Light and Magic. 

Cresciuto in una famiglia di antiquari, circondato da stampe antiche, sculture e opere d’arte, Chiampo ha sviluppato una spiccata sensibilità estetica che traspare non solo nei lavori commerciali, ma soprattutto nelle opere NFT. Sono, infatti, opere che esplorano l’inconscio, attraverso la creazione di ambienti surreali, costruiti come complessi di caverne e cunicoli formati da rocce millenarie. Sparsi in questi landscape mineralizzati, che sembrano quasi fatti di grafite, compaiono scheletri, teschi e detriti ossei che rimandano a una sorta di gigantesco memento mori. Lo stile digitale di Chiampo richiama quello delle incisioni, ma con i temi tradizionali della Vanitas e della Melancholia trasferiti in una dimensione aliena e post-apocalittica. Abilissimo nella resa degli effetti di traslucenza, texturing e illuminazione, Chiampo è riuscito a costruire un linguaggio visivo capace di indagare il lato oscuro dell’uomo. I suoi lavori, soprattutto quelli della serie intitolata Futured Past, danno corpo e immagine a una gamma di ossessioni, paure, allucinazioni che abitano lo spirito umano fin dai tempi più remoti.

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Federico Clapis

di Ivan Quaroni

La sua arte è il risultato di un’epifania spirituale, di un’illuminazione che l’ha condotto ad abbandonare nel 2015, al culmine della sua popolarità, una carriera di youtuber, attore e performer con un vasto seguito per dedicarsi unicamente alla creazione dei suoi lavori. 

Nato a Milano nel 1987, Federico Clapis è uno dei più noti artisti della scena crypto, ma le sue opere esistono da prima che nascessero gli NFT. Realizzate in bronzo, resina e cemento, le sue sculture sono state create mescolando progettazione digitale e raffinate tecniche di lavorazione artigianale. La sua ricerca ruota attorno a due polarità, una interiore, basata sull’introspezione individuale attraverso l’esercizio di pratiche meditative come l’Out of Body Experience, l’altra esteriore, incentrata sull’osservazione della società e sulle sue traiettorie possibile. Il tema principale dei suoi lavori è, infatti, il rapporto tra l’uomo e la tecnologia. O, meglio, il ruolo pervasivo che essa avrà nella vita quotidiana delle prossime generazioni, plasmando le abitudini e costumi di una civiltà che l’artista immagina da un punto di vista retrospettivo, come se si trattasse di una scoperta archeologica avvenuta in un remoto futuro. Anche i suoi NFT conservano queste qualità iperstizionali. Sono cioè, in riferimento al termine iperstizione inventato dal filosofo accelerazionista Nick Land, delle profezie che si auto-avverano per il semplice motivo di essere riuscite a penetrare nell’immaginario collettivo. Come nel caso delle opere, oramai diventate iconiche, Babydrone in Space e Connection in Space, che raccontano, e insieme plasmano, l’idea di un futuro plausibile, dove perfino l’esperienza della maternità potrà assumere inediti sviluppi e nuovi significati. 

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Dangiuz

di Ivan Quaroni e Linda Tommasi

Nato a Torino nel 1995, Leopoldo D’Angelo, meglio conosciuto col nome di Dangiuz, appartiene a una generazione che si è nutrita delle subculture della rete ed è stata influenzata dalla diffusione online di generi estetici e musicali, come ad esempio la Synthwave e l’Outrun. Questi elementi hanno, infatti, contribuito alla definizione del suo stile, soprattutto nei riferimenti visivi alla fantascienza degli anni Ottanta e Novanta. Le sue visioni sono ambientate in una notturna congerie urbana, illuminata da ologrammi e scariche incandescenti di neon, scenario di un futuro prossimo più che plausibile. Dangiuz ci catapulta, infatti, nella dura realtà del Conglomerato, lo Sprawl del William Gibson di Count Zero (1986) o la Neo-Tokyo immaginata da Katsuhiro Otomo in Akira (1988), un agghiacciante incubo verticale di sopraelevate e grattacieli collegati da ponti sospesi, affacciati su un’abissale giungla di livelli stradali. È, infatti, in una megalopoli che ricorda la Los Angeles di Rick Dekard che si ambientano le sue storie. I suoi personaggi, buie silhouette stagliate sui lampi intermittenti della metastasi urbana, abitano una realtà che incarna tutti gli squilibri del tardo-capitalismo: dalle feroci disuguaglianze sociali dell’economia globale all’immane catastrofe ecologica, dalla polverizzazione del patto sociale al controllo delle multinazionali, dalla connettività post-umana dei servo-meccanismi alla claustrale solitudine dell’individuo isolato nella propria cellula abitativa. È un mondo che cade a pezzi, un universo cyberpunk che recentemente si è evoluto in una nuova dimensione estetica, iniziata con l’opera Wasteland, la descrizione di un mondo di carcasse in rovina.

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Fabio Giampietro

di Ivan Quaroni

È considerato uno dei pionieri italiani della crypto art, ma viene, come altri artisti NFT, dalla pittura tradizionale. Fabio Giampietro, nato a Milano nel 1974, ha dipinto per anni immense megalopoli viste dall’alto, organismi urbani proliferanti, che sembrano usciti dalle fantasie distopiche di un romanzo di Neal Stephenson, l’inventore del termine mataverso. I suoi quadri affondano le radici nella tradizione del Futurismo e dell’Aeropittura italiana del primo dopoguerra e nelle ricerche spazialiste, ma la passione per la tecnologia caratterizza da oltre un decennio la sua indagine artistica. La maggior parte dei suoi dipinti è ispirata a New York, il primo modello di città futuribile che più tardi sarebbe stato soppiantato dalle nuove megalopoli asiatiche. La sua è una metropoli vista dall’alto, quasi a volo d’uccello, su cui si spalanca il vertiginoso scorcio del reticolo urbano. Non a caso Giampietro chiama questi lavori Vertigini, riferendosi allo spaventoso disorientamento generato dall’altezza dei grattacieli. Una sensazione che, tra i primi in Italia, è riuscito trasferire in VR con l’installazione Hyperplanes of Simultaneity, che ha vinto il prestigioso Lumen Prize, il più importante riconoscimento nell’ambito delle opere d’arte create con mezzi tecnologici. Le opere crypto di Giampietro sono tutte ricavate da dipinti ad olio di grandi dimensioni e dunque conservano intenzionalmente intatta l’originale grana pittorica dell’immagine.

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Adriana Glaviano

di Ivan Quaroni

Nata a Palermo, ma diplomata all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, Adriana Glaviano ha lavorato come grafica e illustratrice per numerose riviste di moda, diventando prima Fashion Editor di “Vogue Italia”, poi collaborando come vicedirettore moda a riviste del gruppo Rcs come “Amica”, “Io Donna” e “Anna” e, infine, assmendo l’incarico di Fashion Director di “Vogue Gioiello” e “Vogue Pelle”. Oggi lavora sia nel campo dell’editoria e della moda, sia come artista, autrice di sontuosi wallpaper ispirati alla pittura e al genere dei trompe-l’oeil. L’influenza dell’arte barocca è visibile anche nelle sue opere digitali, popolate di animali esotici e disseminate di rovine architettoniche immerse in un lussureggiante paesaggio naturale. L’opera Jungle Palace, realizzata in esclusiva per la galleria d’arte NFTART.CH di Lugano, è un monumento alla natura selvaggia, ma anche all’arte e all’architettura del passato, una perfetta combinazione tra un bestiario esotico e un paesaggio arcadico rivisitato alla luce dell’incombente catastrofe climatica. Con quest’opera, Adriana Glaviano oppone agli effetti distruttivi della società consumista e tardo-capitalista, gli eterni valori della bellezza e dell’arte.

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Hackatao

di Ivan Quaroni

Punta di diamante della frangia italiana della crypto arte, gli Hackatao sono un duo di artisti riconosciuto a livello internazionale tra i pionieri della rivoluzione NFT. Il loro nome è formato dalla crasi delle parole hacker e tao, indicazioni di un retroterra culturale che mescola antagonismo cyberpunk e spiritualità nel segno di un’arte di immediata riconoscibilità, che combina elementi pop surrealisti ed immaginario manga. Gli “Hacker del Tao” sono due artisti che combinano i loro talenti in una grammatica che fonde l’impulso disegnativo dell’uno con la sensibilità cromatica e strutturale dell’altra. Il loro sodalizio nasce a Milano nel 2007 e si concretizza prima nella creazione dei Podmork, sculture in resina e ceramica che formano un campionario di figure a metà tra l’estetica kawaii giapponese e la moda lowbrow dei vinyl toys, poi nel passaggio a una pittura pop, in cui le forme dei loro bizzarri personaggi sono riempite da una fitta trama di disegni, una sorta di ipertesto visivo in cui si annidano frasi, immagini e riferimenti che formano un ininterrotto flusso di coscienza e, allo stesso tempo, una trappola ottica per l’osservatore. Il cortocircuito generato dalla combinazione tra linearismo grafico e pittura flat – una polarizzazione che ricorda la diade taoista di Yin e Yang -, è, infatti, la caratteristica principale della ricerca degli Hackatao, mantenuta intatta anche nel formato digitale. Il loro contributo alla definizione della crypto arte è fondamentale e passa attraverso una serie di sperimentazioni che combinano la pittura su quadro a elementi di animazione digitale. Nel 2018, quando vivono già da sette anni in uno sperduto borgo medievale sulle Alpi Carnie, arriva la svolta con l’ingresso nell’ancora misconosciuto mondo degli NFT. In reazione alle vecchie logiche elitarie del sistema dell’arte, cominciano a realizzare lavori digitali ricevendo l’apprezzamento di una community ancora esoterica, ma in procinto di espandersi a macchia d’olio. Solo dopo giungono l’attenzione rapace delle case d’asta e le vendite milionarie che li fanno balzare agli onori della cronaca. Il loro lavoro resta però fedele alla loro estetica binaria anche nel nuovo formato digitale, come dimostrano le opere esposte in questa mostra. La prima è Beyond the Void, un lavoro finito sulla copertina di “NFT Mag”, prima rivista dedicata alla crypto arte pubblicata su OpenSea, ma è soprattutto un tributo a Lucio Fontana, l’artista che con i suoi tagli, ha gettato luce su ciò che sta oltre la superficie del quadro, aprendo le porte della percezione alla comprensione di uno spazio ulteriore. L’NFT Beyond the Void nasce, infatti, da una esperienza espositiva degli Hackatao al Museo di Cà la Ghironda di Ponte Ronca, nei pressi di Bologna, dove hanno proiettato un proprio lavoro sull’opera Concetto Spaziale-Attese, sette tagli, creando, così, un intimo dialogo con la tridimensionalità di Fontana. Le altre due sono opere nate dalla collaborazione con la band punk americana dei Blondie in occasione del 93° anniversario della nascita di Andy Warhol. Rappresentano, con il tipico stile degli Hackatao, la cantante del gruppo Debbie Harry, oggetto, già nel 1985, di una delle sue prime opere digitali realizzate da Warhol con un Commodore Amiga 2000. I lavori della serie Hack the Borders rappresentano quindi un collegamento non solo tra le rivoluzioni della crypto art e del movimento punk, ma anche tra il mondo degli NFT e le prime seminali sperimentazioni digitali del padre della Pop Art.

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Raphaël Lacoste

di Ivan Quaroni

Nato in Francia nel 1971, ma residente a Montreal dal 2002, Raphaël Lacoste ha lavorato nel mondo dei videogame come art director dei franchise Prince of PersiaAssassin’s Creed, e poi nell’industria cinematografica in qualità di Concept Artist, Production Designer e Matt Painter in film come Terminator Salvation (2009), Journey to the Center of the Earth (2008), Death Race (2008), Repo Men (2010), Immortals (2011) e Jupiter Ascending (2015). Nel suo universo visivo il paesaggio ha un ruolo centrale. Influenzato dalla fantascienza e dal cyberpunk, ma anche da pittori romantici come Caspar David Friedrich e Albert Bierstadt e da fotografi contemporanei come Greg Girard e Gregory Crewdson, Lacoste ha creato l’immaginario di un futuro ipertecnologico dove immensi edifici verticali, simili a nuove cattedrali gotiche, sorgono accanto a scenari naturalistici incontaminati. Come nella serie AI Metropolis, che rappresenta le vicende di un gruppo di esploratori al confine tra i territori selvaggi e gli immensi conglomerati urbani. In questo connubio tra mondo naturale e civiltà avanzata, Lacoste ha scoperto un nuovo senso del sublime. Non più il sentimento kantiano di sgomento generato dalla visione delle forze distruttive della natura, quello delle tempeste di William Turner o del Wanderer above the Sea of Fog di Friedrich, ma quello che proviamo davanti allo smisurato sviluppo della tecnologia umana e dei suoi artefatti: un sublime per l’era dell’Antropocene.

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Larva Labs

di Ivan Quaroni

Quando nel giugno 2017 viene lanciato il progetto CryptoPunks, lo standard di token ERC-721 di Ethereum non era ancora qualcosa di reale. A creare quelle che più tardi sarebbero diventate le più popolari icone nel mondo NFT è stato Larva Labs, uno studio di New York composto dagli ingegneri creativi Matt Hall e John Watkinson che hanno tokenizzato 10.000 ritratti in grafica 8bit di personaggi unici per tipologia e caratteristiche estetiche. Dell’intero lotto, 9000 di questi esemplari unici sono stati lanciati sul mercato, mentre i restanti 1000 sono rimasti di proprietà dello studio che li ha creati. Di fatto, i CryptoPunks sono un insieme di avatar generati casualmente, alcuni dei quali sono più rari, come ad esempio la serie Zombie o quella degli alieni. Il loro valore è più simbolico che estetico, perché non solo rappresentano uno dei più antichi esempi di Non Fungible Token, ma hanno anche saputo avviare una florida economia. Un mercato che ha attirato l’attenzione di case d’asta come Christie’s che lo scorso maggio ha venduto una raccolta di 9 esemplari a quasi 17 milioni di dollari.

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Giovanni Motta

di Ivan Quaroni e Linda Tommasi

Giovanni Motta è uno dei crypto artisti italiani che meglio incarna l’epocale transizione dall’arte fisica al mondo immateriale degli NFT. Nato a Verona nel 1971, arriva all’arte dopo un passato da pubblicitario. Il disegno, però, è una sua passione fin dall’infanzia. Dal 2000 inizia ad esporre in gallerie e spazi pubblici le proprie opere, disegni, dipinti e sculture 3D che rivelano la sua passione per i manga e gli anime, ma anche per i cartoni animati americani. Al centro del suo lavoro c’è Jonny Boy, personaggio che incarna l’innocenza dell’infanzia, ma che è anche metafora del bambino interiore che abita la coscienza di ogni uomo. La sua pittura quasi iperrealista, ma contaminata dalla cultura pop, ha un messaggio tanto semplice quanto potente: la ricoperta della creatività infantile come energia vitale che risiede nella memoria degli individui e che può essere riscoperta attraverso un lavoro di scavo psicologico e spirituale. Tutte le sue opere nascono dalla quotidiana pratica della meditazione regressiva, una tecnica che gli permette di far riaffiorare dalle profondità sepolte dell’inconscio ricordi vividi del passato, che poi traduce in immagini che catturano il senso di stupore ed eccitazione delle esperienze infantili. Questo sentimento di entusiasmo è codificato nella forma della metafora videoludica. Le fluttuazioni di Jonny, infatti, richiamano la condizione del player immerso nel flusso del gioco, in una dimensione di dilatazione sinestetica che altera la percezione del tempo. Jonny è, dunque, il simbolo di tutte le qualità del bambino, non ancora corrotto dal cinismo della vita adulta.

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Niro Perrone

di Ivan Quaroni

Aretino, classe 1985, Niro Perrone ha scoperto il mondo degli NFT nel 2020, in piena crisi pandemica, quando ha iniziato a disegnare storie per i suoi figli. Prima lavorava in ambito musicale come Producer e Dj, pubblicando singoli ed EP con etichette indipendenti. I suoi disegni nascono come flash narrativi ispirati alle vicende della sua vita quotidiana, ma diventano presto opere quando passa dalla matita alla tavoletta grafica. Diventate un’occupazione a tempo pieno, le opere di Niro Perrone, pubblicate su Instagram, iniziano a circolare in rete. Poi, con l’esplosione dell’arte crypto, crea i suoi primi NFT, caratterizzati da uno stile che ricorda quello della cosiddetta Linea Chiara del fumetto francese degli anni Ottanta. Vengono in mente autori come Moebius e Jacques Tardi, soprattutto per la pulizia e la chiarezza di contorni con cui Perrone da forma alle sue narrazioni.  Sono storie fantastiche popolate di personaggi ibridi, chimere e mostri caratterizzati, però, da una vivacissima gamma cromatica, che stempera i contenuti, talvolta drammatici, delle sue creazioni.  All’interno di questo caleidoscopico affollamento di figure, proiezione di un universo insieme allegro e nevrotico, si trovano talvolta personaggi iconici, come nel caso di Vicious Murphy, in cui riconosciamo un lubrico RoboCop intento a masturbare un device elettronico della Omni Consumer Product, l’immaginaria multinazionale costruttrice del cyborg nel popolare film di Paul Verhoven.

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Giò Roman

di Ivan Quaroni

Nato nel 1987 a Galatina, Giovanni Romano aka Gio’ Roman, è laureato in Economia e Marketing. All’arte è arrivato più tardi, da autodidatta, nel 2017, realizzando una serie di opere che raccontano storie d’amore proiettate in futuribili scenari urbani, che rimandano, quasi classicamente, alle notturne ambientazioni di Blade Runner. La sua opera, intitolata Forever, dedicata a Koby Bryant e a sua figlia, ha fatto il giro del mondo. Condivisa sui social da Alicia Keys e riprodotta su una t-shirt vestita dalla popolare comica americana Leasly Jones durante il Late Night Set, l’opera rappresenta la stella del basket americano mentre accompagna la figlia in un’aerea schiacciata sullo sfondo di un romantico cielo al tramonto. Non tutti i suoi lavori, però, rivelano una vena lirica. L’opera Provocation, ad esempio, ci introduce nei meandri di un’utopia negativa, in cui alla rovina dell’arte tradizionale, rappresentata dai capolavori di Leonardo, Vermeer, Van Gogh, Picasso e Munch sparsi sul pavimento nel caveau, corrisponde il collasso della blockchain e degli NFT, simbolizzati dalle crytovalute Bitcoin ed Ethereum e dalle icone dei Cryptopunk.

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Skygolpe

di Ivan Quaroni

“Skygolpe è l’identità. Skygolpe è il vuoto. Il suo lavoro esplora la loro giustapposizione, insieme all’esistenza fisica e digitale del corpo”. Questo è il succinto ed enigmatico statement con cui si presenta uno dei più famosi crypto artisti italiani su Artifex, uno dei molti marketplace che ospitano le sue opere. Appassionato di filosofia e con alle spalle un’esperienza di collaborazione con Stix, un celebre street artist inglese, dopo il suo ritorno in Italia dopo sei anni di permanenza a Londra, Skygolpe ha realizzato dipinti, fotografie, installazioni e lavori digitali. Prima dell’esplosione degli NFT, il suo lavoro era caratterizzato da una matrice concettuale, un elemento che contraddistingue anche le sue opere cypto, sebbene con un’attitudine nuova, che lo spinge a indagare i contrasti e le polarità che caratterizzano la società contemporanea. Il nome che si è scelto, Skygolpe, è il riflesso di questo interesse verso elementi eterocliti, come la bizzarra crasi tra il concetto di golpe (colpo di stato) e l’immagine del cielo. Il ritratto, o meglio la forma del volto umano, costituisce il motivo iconografico di tutta la sua ricerca, un perimetro cognitivo ed estetico entro il quale dipana la sua indagine sui rapporti tra identità e alienazione, ma anche tra dimensione fisica e virtuale. Questa sagoma anonima, ossessivamente reiterata, diventa così il contenitore di una pletora di frizioni, incontri, collisioni stilistiche tra le più variegate, che polverizzano l’idea, tanto cara all’arte tradizionale, dello sviluppo di un linguaggio coerente. Il lavoro di Skygolpe accoglie infatti, una moltitudine di grammatiche visive, una babele di vocabolari grafici che si declinano, anche attraverso le sue numerose collaborazioni con artisti di ogni genere e provenienza, in un regesto enciclopedico di stili, che ruota attorno all’immagine simbolo di un’umanità fragile, alla continua ricerca del proprio centro di gravità permanente.

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Giuseppe Veneziano

di Ivan Quaroni e Linda Tommasi

Nato a Mazzarino, in Sicilia, nel 1971, con una formazione di architetto e un passato da vignettista satirico, Giuseppe Veneziano è oggi uno dei principali artisti italiani della corrente New Pop. Con il suo linguaggio pittorico, insieme originale e riconoscibile, l’artista affronta temi sensibili come la politica, il sesso e la religione, attraverso cui ci fornisce un’immagine oggettiva e disincantata della società odierna. Le sue tele sono popolate da personalità storiche e celebrità del presente, icone del cinema e personaggi dei fumetti e dei cartoni animati. Per Veneziano non c’è differenza tra fiction e realtà, elementi che tendono a mescolarsi e confondersi nell’odierna società mediatica. L’artista lavora sull’impatto iconico dei suoi soggetti, siano essi estrapolati da un’opera del passato, da una striscia a fumetti o da una foto di cronaca. Quel che conta, è la capacità comunicativa delle immagini, che diventano come i vocaboli di un linguaggio universale e comprensibile, proprio perché radicato nella cultura di massa globale. Il suo esordio negli NFT trae spunto dalla Madonna Northbrook, dipinta da Raffaello attorno al 1507. Elemento tipico dell’arte di Veneziano è, infatti, l’appropriazione iconografica di fonti del passato (soprattutto opere del Rinascimento italiano), in cui l’artista opera una sostituzione delle figure originali con personalità storiche, celebrità contemporanee o personaggi provenienti da cinema, cartoni animati e fumetti. Nella sua Madonna of the Sacred Heart, che contiene un omaggio al Jonny Boy di Giovanni Motta, Veneziano riesce a trovare un perfetto equilibrio espressivo, che gli consente di riattualizzare, vivificandola con una grammatica adeguata ai tempi correnti, il miracolo della pittura antica. 

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XCOPY

di Ivan Quaroni

Figura leggendaria di artista crypto tra i più influenti, XCOPY è un personaggio misterioso, di cui si sa poco o nulla, se non che opera a Londra e che è stato uno dei pionieri della rivoluzione NFT, attivo, addirittura prima dello sviluppo della blockchain Ethereum sull’effimera piattaforma di Ascribe e poi su marketplace d’avanguardia come RARE Art Labs e Digital Objects. I suoi lavori compaiono già dal 2010 su tumblr con uno stile grezzo e graffiante, che richiama alla memoria le produzioni DIY e delle prime sperimentazioni multimediali. Nell’estetica della rete, le sue immagini spiccano per l’originalità stilistica ed il forte impatto grafico, ma anche per i messaggi critici nei confronti della società contemporanea. Realizzati sotto forma di Gif, sovrapponendo immagini sintetiche simili a graffiti caratterizzate da una palette cromatica essenziale, i lavori di XCOPY colpiscono proprio per la loro efficacia comunicativa, una combinazione di disegno scarno e di animazione minimale, tutta giocata su effetti di intermittenza. I soggetti sono volti quasi scarabocchiati, maschere mostruose, teschi o scheletri che lampeggiano su sfondi monocromi. Sono visioni disturbate dai glitch oppure dal tipico “effetto neve” provocato dall’interferenza dei segnali elettromagnetici sugli schermi dei vecchi televisori a tubo catodico, lo stesso evocato da William Gibson nel celebre incipit di Neuromante. Il linguaggio visivo di XCOPY è figlio della cultura antagonista degli hacker, ma anche evoluzione digitale dell’estetica anarcoide del punk.

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Yuga Labs

di Ivan Quaroni

Se i CryptoPunks hanno aperto la strada al mercato degli oggetti da collezione digitali rari, la cui scarsità è verificabile, il progetto denominato Bored Ape Yacht Club ne rappresenta l’ideale continuazione. Sviluppato da Yuga Labs, il Bored Ape Yacht Club è una raccolta di 10,000 illustrazioni di personaggi che rappresentano altrettanti ritratti di scimmie dall’espressione annoiata. Di queste immagini non ne esistono due uguali, perché ognuna delle scimmie possiede colori, accessori o caratteristiche uniche. Come suggerisce il nome, il Bored Ape Yacht Club è una specie di società elitaria e possedere uno di questi NFT è il solo modo per entrare nel club, dato che consente agli utenti l’accesso a un esclusivo server Discord, dove altri proprietari, comprese alcune celebrità, si incontrano e chattano. I membri di questo club, riconoscibili dai loro avatar con l’effige di una delle scimmie annoiate, si ritrovano sui social media formando una sorta di confraternita digitale. Anche in questo caso, considerate le cifre da record raggiunte da alcuni di questi avatar, non conta tanto il loro contenuto estetico, quanto il valore di status symbol ed il fatto che possedere un NFT Bored Ape sblocca l’accesso per ulteriori oggetti da collezione NFT, come gli esemplari di Mutant Ape Yacht Club o i cani di Bored Ape Kennel Club.

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